UN VIAGGIO QUASI PROBABILE
(Condominio Monte Amiata, Gallaratese, Milano)
La città nella città
“Buongiorno!”
“Salve, buongiorno! Siamo due studenti di architettura e volevamo sapere se fosse possibile fare un giro”
“Certamente! Avrei bisogno dei vostri documenti”
C’è un portale. Lo attraversiamo.
Varcato ci troviamo letteralmente catapultati in una nuova dimensione: il tempo sembra essersi fermato, la città, che in quel tratto di periferia non è molto rumorosa, scompare del tutto. I suoni si ovattano. Le possenti mura riparano la prima corte che ci troviamo di fronte. Alziamo lo sguardo. Siamo piccolissimi, ma ci sentiamo protetti da questo luogo. I pensieri volano:“Ma ci pensi? Tutto progettato a mano! Niente Cad, Niente BIM, solo carta e matita”.
Riprendiamo a camminare.
Labirinto
“48… 49… 50… Arrivo!!!”
Svoltiamo un angolo. Una bambina ha appena finito la conta del nascondino. “Adesso vi trovo”. All’interno delle gallerie e dei passaggi che formano gli accessi alle abitazioni, i bambini giocano, come facciano ad orientarsi è un mistero.
La varietà di forme, percorsi e colori fa si che ogni volta ci si trovi in un luogo diverso pur essendo nello stesso posto, il quartiere ti porta a perderti, ma il perdersi stesso è viaggio. Anche noi, non ci sentiamo persi, ma curiosi. Ad ogni nuovo angolo un nuovo scorcio, e poi un secondo, un terzo… Passaggi stretti e bui che anticipano grandi spazi aperti del vivere in comunità. Troviamo una palestra. “Mi iscriverei pure io qui”. Saliamo una scalinata, attraversiamo una passerella. Alziamo nuovamente lo sguardo, sopraffatti dalle forme, dai colori. La plasticità dell’architettura è indescrivibile: ferma, possente. Sembra di essere all’interno di una città medievale, scorci, viste, ballatoi percorsi coperti e spazi aperti, cunicoli e passaggi segreti. Entriamo in un nuovo corridoio. C’è una rampa, la percorriamo.
Il teatro.
“…………………………………………..”
Uno spazio immenso si apre davanti a noi. Silente. Immobile. Qualche rimasuglio di una merenda per terra. Una cartaccia. Niente di più. Un po’ di vento si fa largo. Parla. Sembra raccontare i pieni e vuoti del costruito. Ci avvolge. Stupefatti da questo spazio inatteso, ci muoviamo verso il suo centro. Sembra una landa, una distesa uniforme rossa, polverosa. La cortina muraria alta e i fronti dei palazzi hanno lasciato il posto ad un’arena aperta.
Ci sentiamo spaesati, vogliamo tornare indietro. Ci giriamo. “woooohh”, l’urlo del vento di nuovo con noi, ci guida nella nostra scoperta dell’architettura. Non ci aveva abbandonato. Non ci abbraccia più, ma è sempre lì come una sentinella. Ammiriamo i prospetti, i dettagli delle aperture, il vetro cemento, i pieni ed i vuoti che si susseguono in modo armonico. Una sinfonia. Ci fermiamo sulle gradinate. Ammiriamo. Il vento soffia ed il suo suono è sempre più chiaro. Solo ora sappiamo perché è cosi melodioso. Ci lasciamo trasportare.
Il dinosauro rosso
“Attenzione pavimento bagnato”
Un cartello giallo ci ostacola il passaggio. Davanti a noi un lungo corridoio. Alto. Enorme. Colonne massicce. Rosso e giallo. Giallo e rosso. Lo attraversiamo. Rimaniamo contro il muro. Li tocchiamo. Sono rugosi. Sembrano ammaccati dal tempo. Imperfetti eppure cosi lisci. Rosso e giallo. Giallo e rosso. È una distesa infinita di colore forte, vivido, un luogo surreale. Ammiriamo la luce. Filtra timida. Sembra impaurita. Anche lei. Corriamo via. Scivoliamo. Cadiamo nel bianco. Muri, scale, ballatoi. Tutto bianco. Ci avviciniamo. “Che giochi di ombre meravigliosi”. Guardiamo la luce. Raggruppa le forme. Le crea e le assembra. Possiamo ammirarle. Nettamente. Distintamente. E capiamo perché siamo scivolati. L’acqua è informe. L’acqua è trasparente. E nonostante il cartello non l’abbiamo vista.
“Questo dinosauro rosso, con una rigida e lunga coda bianca,
sorge ormai terribilmente sopra la pianura”
Aldo Rossi